Era già un mondo frastagliato e incerto quello di prima. E se allora era prima, adesso è poi, una sorta di lungo day after, dove sembra di essere caduti nel gioco crudele di una macchina del tempo, per cui gli eventi si ripetono e ogni mattina da diversi mesi riceviamo le stesse coordinate, cambiano soltanto i numeri, e cioè i numeri dei contagi da covid e i numeri collegati a morti e a strumenti di morte della guerra in Ucraina.
Contemporaneamente sui giornali, nelle scuole, nei discorsi comuni la parola pace è ripetuta come un mantra. In italiano è composta da quattro lettere, che producono un suono e questo rimane nell’aria, spesso ha dei colori, un modo di porsi. La sua distanza dalla vita reale, però, sembra essersi fatta abissale. Qualcuno ne parla ricalcando l’antico adagio, si vis pacem para bellum, e insiste sulla necessità di imporla con mezzi di coercizione. Altri pensano sia ormai tardi per invocarla, in quanto si è mancato all’impegno di lungo termine sintetizzabile nel motto che piaceva a Ernesto Balducci e analogo al precedente, si vis pacem para pacem.
Chi più chi meno siamo diventati un’umanità, in guisa di gigantesco sol uomo, che come la cara Francesca da Rimini, nel canto V dell’Inferno di Dante, sfiancata dalla sua stessa passione, richiama più volte la pace, sebbene non attraverso un riferimento diretto a se stessa. Questo collegamento torna utile per riflettere la gravità della nostra carenza di pace. E proprio come nel caso di Francesca, manchiamo in pace, quando siamo preda delle passioni che ci intrappolano in questo o in quel girone infernale.

Pace e definizioni
Parlare di pace è un po’ come parlare di amore, di libertà, di fede. Ogni definizione è insufficiente, parziale, relativa. Molti pensatori e scuole di pensiero hanno provato a declinare la pace in modo più specifico. Ognuna di queste voci ha fatto leva su di una categoria vicine alla sensibilità del tempo.
Pensiamo all’opera di filosofia politica del 1795, Per la pace perpetua, scritta dal filosofo Immanuel Kant, Rispecchia fedelmente la sensibilità della stagione illuministica. Si fonda con fiducia sui presupposti dell’uguaglianza del genere umano. Quando Kant individua nella costituzione repubblicana la garanzia del mantenimento della pace, sostiene alcuni cardini ispiratori identificabili nella libertà, nella comune dipendenza dalla legge e nell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge:

La costituzione istituita in primo luogo secondo i princípi della libertà dei membri della società (come esseri umani); in secondo luogo secondo le regole fondamentali della dipendenza di tutti da un’unica legislazione comune (come sudditi) e in terzo luogo secondo la legge dell’uguaglianza degli stessi (come cittadini) è quella repubblicana– l’unica che proviene dall’idea del contratto originario, sulla quale deve essere fondata ogni legislazione di un popolo conforme al diritto -. Essa è dunque in se stessa, per ciò che concerne il diritto, quella che sta originariamente a fondamento di ogni tipo di costituzione civile; ora resta solo la questione se sia anche l’unica che possa condurre alla pace perpetua.

L’uguaglianza è più volte invocata, spiegata nei suoi aspetti teorici e nell’applicazione politica facilitata dal passaggio da sudditi a cittadini, in piena sintonia con gli ideali del XVIII secolo, con il mito della ragione umana additata come facoltà lasciapassare e contenitore di altre prerogative e condizioni in grado di consentire alla persona di orientarsi in maniera appropriata nel mondo, cioè in modo da mettere in pratica opportunamente le proprie possibilità.
L’ideale della pace in Gandhi, in piena assonanza con molte filosofie e spiritualità, intreccia la pace all’approfondimento della coscienza individuale, che, quanto più si rafforza, tanto più diventa capace della forza della testimonianza fino al sacrificio.
Al silenzio e alla resistenza sono affidate spesso le inadempienze di parole e atti più o meno velatamente generatori di conflitti, scontri, barricate, piedistalli artificiali.
Non nuocere è il primo imperativo della cura, di antica memoria, tanto semplice quanto tante volte disatteso. Si nuoce spesso senza averne coscienza.
Fare pace, insomma, è molto più impegnativo che fare guerra. Tutti, però, aspiriamo alla pace, ne abbiamo bisogno dentro e fuori. La motivazione per lo sforzo richiesto non dovrebbe mancare. A una storia fatta di mancanze e di perdite conduce la guerra, a una storia fatta di presenze è orientata la pace.

Lo sguardo sul mondo
Le religioni, ciascuna a suo modo, insegnano a guardare alle cose da una certa prospettiva. Ogni spiritualità educa lo sguardo, sia verso il mondo interiore che verso la storia circostante. Coltivare un atteggiamento ossessivo, ad esempio, è indice di idolatria, non aiuta ad accogliere e a manifestare alcuna fede. L’atteggiamento ossessivo è quello impantanato su di un unico aspetto della realtà. Ad esempio, gli organi di informazione, da quando è scoppiata la pandemia da covid in avanti, hanno incoraggiato perlopiù un atteggiamento ossessivo, somministrando aggiornamenti riguardanti soltanto o quasi il numero di malati, di morti, di letti disponibili e occupati nelle terapie intensive.
Con molti punti di contatto un’impostazione simile si sta ripetendo circa la guerra in Ucraina, che non è certo l’unico scontro armato in corso nel mondo.
Al contrario in ogni crisi, cioè in ogni frangente fatto di cambiamenti importanti, dai testi sacri spesso giungono suggerimenti importanti, quali fare un passo indietro o salire in alto per osservare la panoramica a svantaggio dell’aspetto isolato. E, inoltre, raccomandano la praticità, l’orientamento a risolvere il problema a non sottovalutarlo, a non perderlo mai di vista. E il problema fondamentale è sempre il male. Tutto ciò che conduce al male, che provoca il male non va mai perso di vista, ma, contemporaneamente, va inserito in un contesto più ampio, nel quale ciascuno può intervenire con il proprio contributo, con la propria cifra. Diversamente il male, in qualunque forma, ha buone probabilità di rimanere protagonista, di farla da padrone e, infine, di prevalere, proprio come accade quando scoppia un conflitto.

Voci e gesti profetici
Ogni epoca conosce delle figure ispiratrici, il cui apporto supera ogni tipo di barriera. Si tratta di voci abili nel trasmettere messaggi universali, non limitati al gruppo di appartenenza.
Una di queste voci del nostro tempo è sicuramente Daisaku Ikeda, presidente della Soka Gakkai Internazionale. E’ autore di straordinarie pubblicazioni, piene di contenuti e di speranza per chiunque. E ancora oggi, tutti gli anni diffonde un messaggio di pace nel mese di gennaio. Quello del 2022 risale ad alcune settimane prima dell’inizio dello scontro in Ucraina. Per certi versi, perciò, appare datato, visto che tutti giorni siamo informati soprattutto a proposito della grave situazione non troppo distante dall’Europa, né quanto a distanza geografica, né quanto a coinvolgimento a tutti i livelli.
Ciononostante le indicazioni di Ikeda conservano intatta la propria valenza. Egli parla della necessità di ricostruire il tessuto sociale, che non vuol dire semplicemente potenziare l’assistenza dello stato o destinare più fondi da parte delle politiche. Si tratta di un’opera educativa, che tesse gradualmente la cultura della solidarietà e realizza nel silenzio la validissima rete di sostegno della solidarietà, quella del vicino che senza aspettarsi nulla in cambio, né lasciarsi franare da paura alcuna, compie piccoli, ma significativi e spontanei gesti di aiuto al suo vicino. La prossimità è un modo id stare al mondo, nella vicinanza reciproca e quotidiana si gettano le fondamenta della pace come mentalità.
Alcuni passaggi di questo discorso recente del presidente della Soka Gakkai fanno riflettere sulla necessità di prendere coscienza delle condizioni reali dell’umanità. E, in particolare, a dispetto di quanto propinato dai miti settecenteschi, urge rendersi conto di quanto stratificata sia l’umanità e di come il male si accanisca inevitabilmente sulle fasce più deboli, penetrando ovunque attraverso di esse. Nessuno può affermare pertanto di non aver bisogno degli altri. La debolezza di uno è la debolezza di tutti. E ciò non in obbedienza acritica a qualche principio o in applicazione di qualche precetto, ma in seguito a una constatazione dagli effetti molto concreti, come ci ha mostrato e tuttora ci dimostra la pandemia da coronavirus.
A dirsi sembra facile, ma in realtà è un’opera che parte da lontano, dal modo in cui vengono allevati i piccoli, da come sono aiutati a rapportarsi ai propri compagni di gioco, continua nel vicinato e nei luoghi di aggregazione, là dove i legami di prossimità non sono giustificati da interessi immediati, come ad esempio la parentela, eppure si dimostrano in grado di saldarsi e di rafforzarsi nel tempo sulla base di scambi il più possibile disinteressati, nella logica libera del dono.
L’esperienza diretta della condivisione profonda, dell’empatia, della compassione può far toccare con mano che in assenza della pace in realtà non si vive, perché non di esercita la sostanza propriamente umana presente in ogni persona.
Ikeda propone la figura nota e cara al buddismo del bodhisattva, cioè di colui o colei che vive in profonda sintonia con gli esseri che soffrono e li sostiene accompagnandoli nel percorso di vita con lo scopo di superare il dolore e il ciclo delle rinascite. Questa missione di rinuncia al benessere individualistico a vantaggio del beneficio comune non è sperimentata come un sacrificio, ma come la pienezza della sostanza umana, racchiusa nella pratica della compassione. Questa è la tessitura matura e costante della pace.

La gioia è una cosa seria
Nel testo buddista del Sutra del Loto, come ricorda nel suo messaggio di pace Ikeda, leggiamo la frase: gli esseri viventi si divertono a proprio agio (Sutra del loto, cap. XVI). E’ bello vivere e si abbellisce il mondo, quanto più gioia si respira. E la sua diffusione capillare si avvantaggia realmente di un’opera costante da parte di tutti. Se gli esseri umani in questo fossero collaborativi come le colonia di formiche o come gli alveari delle api, davvero tutti desidererebbero vivere e saprebbero contrastare energicamente ogni pulsione di morte, ogni insoddisfazione. Ci sarebbe più gioia, e, di conseguenza, più esseri umani in pace con se stessi e con gli altri, e più pace in generale.
Nonostante i progressi delle scienze umane, la propagazione di numerose religioni e spiritualità, a livello globale l’umanità dimostra di essere carente quanto alla capacità di lasciare campo libero al magnetismo intrinseco della vita, a quella capacità, cioè, di riconoscere nell’altro, nell’altra, in chiunque, la stessa sostanza presente in se stessi. Questo mutuo riconoscimento consolida la reciproca familiarità ben prima ogni altro genere di legame, di sangue, di appartenenza etnica, geografica, religiosa. E’ il fondamento stabile della solidarietà e rende attuabile l’aiuto di cui tutte le grandi tradizioni raccomandano la pratica. Questo reciproco riconoscimento è l’unico realmente in grado di percepire la mano offerta all’esterno come uno slancio che, contemporaneamente, torna sotto forma di beneficio e di progresso su chi lo compie.
Dalle cronache sovrabbondanti dei giorni di guerra apprendiamo dagli organi di informazione di tante forme di umiliazione perpetrate dai più forti sul campo allo scopo di affermare se stessi, umiliando l’altro, specialmente l’altra nel caso degli stupri.
L’impegno per la pace è in linea con l’impegno per la felicità. E la felicità del singolo non esiste, in assenza di un ambiente in equilibrio, in cui ogni elemento trova spazio per venire alla luce e svolgere la propria funzione. Poiché gli equilibri umani sono soggetti a cambiamenti continui, anche la pace non può essere pensata né tantomeno realizzata una volta per tutte. E’ il contatto quotidiano con gli altri e con l’ambiente in genere a restituirci il riflesso del percorso di vita che portiamo avanti. Se questo manca o è compromesso da troppe tensioni o da eccessive contraddizioni, il benessere emotivo è compromesso, la speranza si riduce e le motivazioni per contribuire a far tendere al meglio la situazione scarseggiano sempre di più. La pace, la felicità, la gioia interiore sono paragonabili a cantieri sempre aperti. Richiedono un lavorio continuo e pronto a sostenere la riformulazione delle domande che hanno veramente senso e l’elaborazione concreta di risposte a corto, medio e lungo raggio.

Dono dal cielo versus fabbrica modello Rovaniemi
Le religioni, con il loro serbatoio di spiritualità, di esercizio alla regolare centratura in se stessi, di visioni attente all’essenziale, e soprattutto con la proiezione della storia nell’infinito, con la fondazione dell’umano nel divino, teoricamente assicurano tutte un forte ideale di pace, di felicità, di gioia interiore, di equilibri complessi.
Rischiano, però, di non agevolare affatto la pace concretamente. Infatti, una ottica di pace sbilanciata sul piano della trascendenza o dell’escatologia può risultare inefficace se non dannosa all’umanità immersa nella storia. La lettura trascendente, che fa equivalere la pace al dono, può rivelarsi pericolosamente ambivalente. La pace come offerta divina, qualunque siano le implicazioni teologiche specifiche, conferisce un valore straordinario alla sua sperimentabilità. Può anche alimentare, però, il fatalismo e una certa passività, per cui la pace diventa contenuto di preghiera, di attesa, e, disgraziatamente in molti casi, di rassegnazione. Perpetrare una simile religiosità non restituisce fiducia né speranza sul piano umano. Non sostiene le motivazioni all’impegno e al progresso.
C’è, inoltre, un ulteriore pericolo collegato all’interpretazione della pace: vincolarla a condizioni stringenti, sperimentarla e proporla come esito dipendente da una singola, specifica religiosità, ad esempio, è snaturante per le teologie, che, al contrario, la considerano come effetto del divino sull’umano. Vincolare la pace, considerarla come un possesso o un’esclusiva di un certo gruppo umano, renderla un’ideologia non favorisce un clima di felicità, ma di violenza. Potrebbe anche giustificare una guerra.
Fatalismo e ideologia sono opposti rispetto a un profilo per certi versi più umile, più basso, più quotidiano della pace, ma più attivo. L’immagine potrebbe sembrare fuori luogo, ma è efficace a chiarire il concetto. Le storie cinematografiche che fantasticano su Santa Klaus e sul suo villaggio finlandese di Rovaniemi mostrano immancabilmente un’enorme fabbrica di doni attiva tutto l’anno e mandata avanti da tutti gli elfi. A volte litigano, sbagliano, si distraggono, ma portano avanti l’impresa e, in questo modo, portano avanti se stessi. Forse sarebbe più efficace concentrarsi su di un tipo di pace modello Rovaniemi. Le religioni, le spiritualità, le tecniche di meditazione sono tutte molto preziose nel sostenere le motivazioni e nel perfezionare la capacità di discernimento fondamentale, per distinguere quanto realmente conduce al bene più universale possibile.
Nessuna visione della pace dipendente da schemi mentali, da un’attesa fatalistica, da un atteggiamento di passività sarà autentica. L’unico modo per fare pace, coerente nella sostanza con religioni e spiritualità, è attingere alla creatività, con l’intento chiaro e fattivo di agire per il bene non di uno, non di pochi, ma dell’umano universale.

Ada Prisco